Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: |
6 Settembre 2011 | Nonesuch | RyCooder.nl |
No Banker Left Behind
Ry Cooder torna a scrivere di proprio pugno dischi personalissimi, interrompendo la lunga sequela di compartecipazioni e patrocini che lo hanno tenuto occupato fuori e dentro la musica dei “generi”; e per una vena che si va occludendo un’altra si apre, ora archiviata l’esperienza con Paddy Moloney dei Chieftains nel calore coloniale di San Patricio del 2010, Cooder si fa bollire il sangue e protesta contro la ricchezza, i mercati fraudolenti, il potere e la guerra, arciona violentemente il toro compassato di Wall Street e da la caccia ai fantasmi e ai mostri reali della società americana come un moderno Seeger o un ribelle Guthrie.
In “Pull up some dust and sit down” girano tanti personaggi, più o meno noti, e che Cooder “fa parlare” tra walzerini old west, mazurche, blues stravaccati, country e rock, un gran ca can d’idiomi sonori per quella che doveva essere la fiduciosa opera nascosta di un artista senza tempo, e che man mano che l’ascolto ne dipana la tessitura n’esce un disco “almanacco” bello. grezzo e con quella “corteccia” trapper da vecchio cantastorie.
Ci sono i mantici d’accordeon di Flaco Jemenez che vibrano nel walzer cichano dedicato a Jesse James “El corrido de Jesse James”, il tocco di bacchette di Jim Keltner a dare il giro giusto al gospel- blues maledetto che smuove la coda luciferina dentro “Lord tell my why”, il figlio di Cooder, Joachim, a ritmare “No banker left behind” storia del giornalista Robert Scheer e il salmodiare solitario di “John Lee Hooker for President” dietro la quale lo spirit di Hooker si muove serafico ed impalpabile.
I denti cariati di quest’America dell’aquila stanca sono messi in bella mostra, le superficialità spongiformi dell’impero postate alla berlina del racconto musicale che Cooder elenca minuziosamente con un vigore inaspettato dalla parte di chi “è minore” in questa società a stelle e strisce, il sogno mexicano degli States Free land “Quick sand”, la tagliente lirica che ustiona “Christmas time this year”, acido muriatico contro la guerra e le politiche “pacifiste” da esportare nel mondo, canzone questa messa a contrasto con la chitarra crooner solinga e triste di un soldato al fronte che aspetta di tornare a casa “Baby joined the army”.
Un disco “contro”, come le riesanime discografiche dei primi anni sessanta, la folksong di denuncia, la protest-song dei corner Washingtoniani dei collar; un macinare canzoni e diritti dentro un album di un artista che prende coscienza di quello che si muove attorno, respirato fuori dall’ipocrisia e scritto con l’anima parcheggiata negli anni del disadattamento sociale tra hobo e stelle false d’uguaglianza, passando per un Dio in levare “Humpty dumpty world” e una Cubana easy-night “Dreamer”, come in una fine giornata di passione umana sprofondata in mezzo alle tette vintage e rassicuranti della storia.