Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
24 gennaio 2012 | Fire Records | gbv.com |
Si sono ritrovati e rimessi insieme dopo una scia di peccati e tumulti personali, e tornano per rimettere in salute quel fenomenale Barnum sonoro che ci ha sempre regalato brividi e belle cose dal loro modo di leggere l’indie; gli americani Guided of Voices non hanno bisogno di tanti preamboli, ed il collante di questa rentrèe è “Let’s go eat the factory”, il loro vizio rock’n’roll spigoloso, bizzarro e riverberato che influenzato dalle costanti vicende personali, ha in ogni caso sempre segnato – come in un rosario laico – le stagioni effervescenti dell’ultima ondata di psichedelica, gli anni a cavallo degli Ottanta elettrici e la shitty fuzztonite a rimarcare lo stato d’agitazione che bolle nel dna delle loro vene sclerotiche.
Della band originaria dell’Ohio non ne manca nessuno, Robert Pollard, Tobin Sprout, le corde di Mitch Mitchell, Kevin Fennel e Greg Demos alla ritmiche tornano ad agitarsi nei suoni gracchianti, dolci e bisunti in ventuno brani per un totale di 42 minuti di “strepitoso” rock che, se magari non aggiunge assolutamente nulla al loro ventaglio ed al rockerama tutto, porta all’ascolto di fermi ma ottimi “momenti di gloria” inattaccabili alla ruggine delle mode. Ora detto che il disco in questione non conferma nessuna mutazione e tanto meno annunci di rivolte sonore, rimane il caldo e potente miscuglio che è il loro mondo, quelle sensazioni a tatto di musica bevuta, scolata, continuamente ai bordi della notte e che va a riempire ore piccole e insonni, palpitazioni e sferragliate che si appiccicano ai microsolchi come pollini.
Per chi li ama e li ha amati sa sempre, i GbV si consegnano appassionati, un sollazzo di cantilena al tramonto “Who invented the sun”, la straniante pastorale sinfonica che umetta “Old bones”, un soffio di Fab Four “Hang Mr. Kite”, il singolo “Doughnut For A Snowman”, un Barrett che fa lievitazione nella trombeggiante “Imperial racehorsing” da una parte, nell’altra il fiato grosso del rock “Spiderfighter”, “Laundry and lasers”, l’accenno prog “Either Nelson”, i 37 secondi d’overdose alcolica “Go rollin home” e l’apoteosi finale di “We won’t apologize for the human race” nera come la pece e astiosa come un comandamento luciferino; dinamiche ben contraddistinte ma che una volta riversate nel fuoco sacro dell’ascolto, generano un approccio generale celebrativo e bello.
Una premessa è d’obbligo, se in tanti stanno evidenziando lo smalto oramai corroso della band e dei sotterfugi adoperati pur di restare a galla comunque, quello che si può aggiungere dal nostro versante (ribadendo il nulla di nuovo arrivato dall’Ohio) è che il disco rimane comunque un’esplosione della migliore musica controcorrente a stelle e strisce.