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17 Gennaio 2012 | S Curver Records | Betty Wright FacebookPage |
L’arte, ormai lo sappiamo, non segue nella sua evoluzione la parabola ascendente di un inarrestabile progresso. Si muove invece secondo una logica complessa di ritorni, indecisioni, ciclicità impreviste, reinterpretazioni; ogni nuova lettura del presente ha bisogno di uno spunto deliberatamente prelevato dalla tradizione per metter in moto un nuovo sguardo, o una nuova critica nei casi migliori.
Quando si rifunzionalizza un elemento eterogeneo eppure così ricco come la black music, è chiaro, si rischia un effetto stopposo di revival, di operazione nostalgia da supermercato. E però qui in campo c’è Betty Wright, una voce di quelle che di rivali ne teme pochi. Basta partire da Whisper in the wind per avere un’idea della credibilità di una regina soul che torna alla ribalta dopo alterne fortune commerciali, coadiuvata da una schiera di ospiti di tutto rispetto e soprattutto dalla migliore backing band che si possa desiderare nel suo ambito, I Roots ladies and gentlemen. Certo, non tutto gira come potrebbe: gli episodi più dichiaratamente anni Ottanta (In the middle of the game, Surrender, Look around etc.) rimangono indigeste e poco coinvolgenti prove di stile; la splendida strofa di Grapes on the vine viene dissipata da un orrido ritornello finto rock alla Turner dei momenti peggiori, mentre Tonight Again si posiziona a metà strada fra il kitsch e la gradevolezza. Non è solo forma però quella che ci offre la Wright: la magnifica nenia di Real Woman vibra che è un piacere, con uno svagato Snoop Dogg a sciorinare qualche rima sulla tela melodica di casa Roots da cui, per dire, i Massive Attack di Protection avrebbero potuto prendere qualche imbeccata. Anche Hollywould è un’ottima prova di un soul che quando vuole sa superare i riferimenti e militare serenamente nell’epoca d’oro, pur continuando a parlare al presente. Un po’ prolissa ci pare invece You and me Leroy, accanto alla magnetica Baby come back: suggeriamo di prenderle a metafora di un disco dalle fasi alterne che a tratti avvince e a tratti annoia per l’eccesso calligrafico e per la produzione attenta, ma leccata.
Un Lee Fields, ad esempio, o un Charles Bradley, hanno saputo tirar fuori dal cilindro suoni molto più veri e convincenti di questi, anche se l’intento naturalmente era ben diverso da quello della Wright, che vuole riconquistare il grande pubblico accontentando anche i palati fini che per mezzo del nu soul hanno appreso la lezione dei vecchi suoni. In questo i Roots sono ineccepibilmente ruffiani, anche se rimaniamo in zona John Legend lì dove una The one pare davvero una cover maldestra.
La coscienza nera oggi più che mai ha bisogno di radicarsi, di riconoscersi in un orizzonte condiviso, e a questo mira The Movie, oltre ad un certo rientro economico e di immagine; sicchè Go è una vera dichiarazione di intenti e la zia Betty, nonostante i lustrini, dimostra di saperle dire ancora certe cose serie e dense. Cerchiamo di ascoltare e di perdonarle qualcosa.