Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
7 Febbraio 2012 | Jagjaguwar | Sharonvanetten.com |
State attenti, questa gattina potrebbe graffiarvi i lobi degli orecchi; lei è Sharon Van Etten, giovane cantautrice di Brooklyn (NY) al terzo disco in medagliere, “Tramp”: dodici tracce vissute con grazia, gioco, un pizzico d’incoscienza e, cosa non da poco, un amore sconfinato per la musica. Non quella “accademica”, come tante sue colleghe, ma quella delicatamente “ingolfata” di pathos che racconta le piccole cose di tutti i giorni.
Prodotto da Aaron Dessner dei The National, Tramp è il disco dove l’artista si fa ancor più grande, più raffinata nelle tessiture liriche e nella maggiore libertà cha fa da controllo totale sulla gentilezza, o eleganza, che si espande man mano sulla tracklist. Dove il suo cantautorato dalle radici folk-urbane esce definitivamente dai “sobborghi” per abbracciare il senso più ampio della nicchia, più aperto nell’aria, ma sempre mantenendo quelle filigrane di candore intimo, femminile. Già il precedente Epic ci aveva indicato che quest’artista sentiva l’esigenza di sconfinare oltre i parametri compositivi, e in men che non si dica ritroviamo un’artista rinnovata all’interno di un nuovo verbo artistico.
“Barbone” – questo il significato del titolo del disco – è stato registrato qua e la per Brooklyn, quando la cantautrice si era ritrovata senza casa, ospite di amici musicisti: un vagabondaggio preso con il dovuto sarcasmo, così che proprio molti di quegli amici che l’hanno ospitata (Matt Barrik alla batteria, dai The Walkmen, Jenn Wasner e Julianna Barwick, dai Wye Oak’s, Beirut, Thomas Bartlett dei Dove man alle tastiere, e lo stesso Aaron Dessner che suona la guitar slide ed il basso) si ritrovano qui dentro, mischiati anche in cori, controcori , svisetti e goliardia, come in un salutare sabbath di prediletti homeless. Il risultato non si fa attendere, basta affacciarsi nell’indie-inquietudine di “Serpents”, prendere l’alto nel soul-blues tra una lacrima di Amy Winehouse “Kevin’s” ed un “caprice” alla Nora Jones confidenziale “In line” o “We are fine”, o magari, se si hanno voglie di respirare boccate piene di easy-listening campagnoli basta spostarsi nei fields di “Ask” e “All I can” oppure chiudere momentaneamente i conti col quotidiano per volare via tra le alture sensazionali di “Joke or a lie”.
Il dilemma di questo disco non è il come-salirci-a-bordo, ma come trovare la forza poi discendere. E allora tanto vale rinnovare le indicazioni anticipate nell’incipit di recensione: sì, questa gattina potrebbe graffiarvi i lobi degli orecchi. Sharon di Brooklyn crea e dissipa ombre, fluttua nell’aria, piace e fa soffrire, accarezza e colpisce. Ascoltatore avvisato, mezzo salvato.