C’è, in “Dove”, come un sottilissimo nastro che lega le Dieciunitàsonanti (romani) alla cosiddetta scuola romana dei cantautori. Che proprio con loro sembra confermare quella recente fusione con estetiche più caotiche, e quindi più belle.
In questo disco il caos è anche nell’osservazione che parte dalla coscienza (la casa interna) agli spazi esterni, attraverso non uno sguardo, ma un’occhiata, come di chi guarda un paesaggio durante una passeggiata e si fa domande sulla propria vita, sulla propria esistenza. I giudizi sembrano essere più domande che altro, richieste di conferma; il modo ha della dolcezza, come quel lampo che dall’adolescenza ti scaglia alla maturità . “…se era Dio che rispondeva, io non lo so” (Le case dove vivevamo).
L’impatto è decisamente sognante, senza essere melenso, le schitarrare inglesi, le rotondità di certi suoni malinconiche, tremule e penetranti. La scrittura pesca negli ultimi tre decenni, qua e là, senza appoggiarsi particolarmente a qualcuno; parla anche con leggerezza e una certa ironia delle relazioni personali e interpersonali, tra coppie, condòmini. Ciò che si ha e ciò che si vorrebbe.
Tutto “abbastanza” in tonalità minore, tranne qualche caso più coraggioso, come “Claudia alla Stazione” – forse il momento più riuscito del disco -, e va tutto bene, senza problemi, senza paradossi, senza lagne o parodie. E’ un bel disco, dove anche Benvegnù ha lasciato il suo sorriso, e si sente.
Se non fosse per un po’ di coraggio che manca, quello che si perde per voler accontentare le orecchie di tutti, anche dei sordi, non mancherebbe niente.