Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
13 gennaio 2017 | ninja tune | ninjatune.com | ![]() |
Migrazione: l’azione di passare da un luogo ad un altro, di passare ad una nuova condizione o forma. Di una persona o di gente, o di creature, o dell’anima – di muovere o spostare la rispettiva residenza o posizione. La parola ha diverse origini, che derivano in parte dal francese medio “migration” e in parte dal latino classico “migrātiō”. Nel tempo si è spostato, si è mosso, è passato di luogo in luogo.
Introduzione doverosa per questo sesto album di Simon Green, che col precedente “North Borders”, ha portato il suo progetto Bonobo dritto nell’apogeo dei più raffinati progetti musicali del panorama mondiale. Simon si avvale sempre della collaborazione misurata di diversi artisti internazionali che lo aiutano in questa intima collaborazione.
Tiepide e malinconiche atmosfere, l’effimero sciogliersi di cristalli di brina e la loro scomparsa, misurate vibrazioni di una musica post-tribale; la migrazione avviene grazie al pianoforte di Jon Hopkins che, con la traccia omonima segna il passaggio – rispetto al precedente album – verso una nuova forma. “Break Apart” è una lenta ninnananna per carillon, con il ticchettio di un metronomo che segna il tempo; un caldissimo e soffuso viaggio fra i violini e le rassicuranti parole di Rhye.
I sample usati, composti, smembrati e rimontati di Simon sono stati catturati in giro lungo il suo lunghissimo e passato tour; qualcuno è stato catturato in aeroporto di notte, qualcun altro è stato composto a Los Angeles – la sua casa da qualche anno. I loop giocano continuamente fra loro in questa sorta di morbido IDM che cerca di diventare una fonte di riscaldamento intimo mediante freddi ingranaggi ipertestuali. Lo sbilenco arpeggiatore di “Outline” emerge e scompare su classiche sezioni ritmiche r’n’b già sentite nei suoi precedenti lavori. Le voci di “One Grain of Sand” si stirano lungo il pitch, diventando quasi un mantra orientale in un unico corpo strutturale, fino alle conclusiva manipolazioni electro-jazz.
Malinconico e superbo climax quello di “Second Sun”, che genera, grazie alle sue orchestrazioni classiche, un tuffo al cuore e un salto nel vuoto: l’addio ad uno stato d’animo, al luogo di sempre, l’estremo saluto ad un mucchietto di ricordi che saranno per sempre sepolti in un cassetto.
“Surface” apre cos’ una nuova prospettiva, Nicole Miglis canta i suoi stornelli su un electro-folk che profuma di Mùm. Dalle chitarre folk ai ritmi tribali di una foresta che rimarrà sempre fredda, cristallizzata e filtrata. “Bambro Koyo Ganda” suona le improbabili unioni di diverse fonti di calore: quelle del corpo umano liberato e quelle delle corde del violino slegate e sbrigliate negli esotismi del prog anni ’70. Simile la conclusiva “7th Sevens”, che usa caldi djembe e fredde pulsazioni IDM, in classico stile Ninja Tune.
Con “Kerala” si manifestano diverse etnie musicali. Accenni di una dance che si slaccia lentamente al cospetto di certe suggestioni indiane; il sample gioca il ruolo di una cantante di Bollywood, il ritmo è gentile ma tangibile. Si riflette sulla distanza di migrazione degli uccelli che dalla Siberia alla Mongolia oltrepassano l’Himalaya; grazie ad “Ontario” la calma e l’immanenza dei grandi laghi la fa da padrone.
“No Reason” è il pendant di “Break Apart”, dove la calda e melodica voce di Nick Murphy (aka Chet Faker) crea i presupposti per un magistrale brano soft-house; dance raffinata e desaturata – fiore all’occhiello di tutto l’album –, impossibile non riascoltarla più volte di seguito (*).
“Figures” è la forma d’incandescenti apparizioni che abitano le acide colorazioni nel deserto del Nevada, luogo solitario accanto alla frenetica California. Manifestazioni di piccoli fantasmi delle nostre precedenti vite, dei nostri luoghi passati; voci minute, esili fuochi fatui che si sovrappongono ricostruendo uno smembrato passato dai lineamenti evanescenti. Resta quella malinconia generata dal senso di vuoto per l’incapacità di trovare una nuova identità, che si rispecchia nell’immagine infranta di una ricerca (in realtà) votata all’adattamento.
–
(*) interessante il fatto che (pare che) Chet Faker abbia rinunciato alla sua prima ragione sociale perché troppo legata ad una musica tribale che ormai non trova più parallelismi con i suoi gusti musicali, definiti ormai maturi e non fintamente sensazionalistici come agli esordi. Idem per il suo conseguente modo di comporre musica.
![1star](http://www.rocklab.it/wp-content/plugins/all-in-one-schemaorg-rich-snippets/images/1star.png)
![1star](http://www.rocklab.it/wp-content/plugins/all-in-one-schemaorg-rich-snippets/images/1star.png)
![1star](http://www.rocklab.it/wp-content/plugins/all-in-one-schemaorg-rich-snippets/images/1star.png)
![1star](http://www.rocklab.it/wp-content/plugins/all-in-one-schemaorg-rich-snippets/images/1star.png)
![1star](http://www.rocklab.it/wp-content/plugins/all-in-one-schemaorg-rich-snippets/images/1star.png)