Ok Computer, l’eredità di un album


Le ragioni di un’eredità

Ok Computer è il lavoro di una band diventata grande, che ha scoperto l’ebbrezza di avere l’esperienza, il controllo, la solidità e i mezzi per dare fondo a tutte le proprie risorse creative, e che, cosa non scontata, riesce a farlo. È dunque un lavoro ambizioso, ma conserva in sé la freschezza, l’esultanza di quella libertà appena conquistata e messa in atto, il senso di giubilo del salto appena spiccato. In fondo si può dire che è a partire da questo album che comincia la storia di quelli che alcuni anni dopo Thom Yorke avrebbe definito i Radiohead Mk.2, la trasformazione imprevedibile di una band di alternative rock molto talentuosa, ma che si dibatteva all’interno dei meccanismi della discografia del rock, in un vero e proprio sodalizio di creativi che detta il passo, impone le proprie regole, e che determina il percorso dal quale, discografici e artisti dopo di loro, non potranno prescindere. Come disse allora il direttore generale della Parlophone:

loro sono destinati a modificare la capacità [del pubblico] di accettare determinati tipi di musica”.

A distanza di vent’anni può sembrare inevitabilmente retorico glorificare un album a tutti gli effetti storico e cruciale, ma quando i Radiohead si apprestarono alle registrazioni di Ok Computer tutto questo non era affatto scontato. Quello che si sapeva di loro è che erano una band di ragazzi colti e ben educati di Abingdon, Oxford, che erano riusciti a ottenere un contratto con la Parlophone in Inghilterra e la Capitol in America, e a sfornare nel giro di poco, ironicamente quasi senza volerlo, un singolo che, dopo un primo insuccesso nel Regno Unito, venne accolto, prima a Tel Aviv e poi in America come il perfetto inno dello spleen generazionale degli anni Novanta. Un singolo, quello, che aveva adombrato la sostanza tutt’altro che trascurabile di un album “promettente ma imperfetto” come Pablo Honey, e che aveva rischiato di far scambiare quel manipolo di promettenti musicisti per una band meteora, una di quelle band che viene spremuta dai discografici finché il singolo tiene, per poi essere accantonata qualora non riuscisse a bissare quell’immediato subitaneo consenso (e a detta del primo produttore dei Radiohead, Paul Q. Kolderie, pare che qualcuno alla Capitol la pensasse proprio così).

Ciò che si seppe poi è che quella band aveva preso le misure da quella prima, shockante esperienza, e all’altezza delle registrazioni del secondo album aveva saputo farne tesoro per schivare, non senza sofferenze, le pressioni di una casa discografica che cercava di spingere la band in una determinata direzione, alla ricerca di un singolo che potesse bissare il successo di “Creep“, per realizzare un album invece sfaccettato e compiuto come The Bends. Un album che si presentava non certo come una raccolta di singoli, ma – anche grazie all’impegno di un produttore come John Leckie (e del suo giovane aiutante Nigel Godrich) – come un lavoro complesso e stratificato, dotato di episodi molto diversi fra loro, declinati con una coerenza stilistica ed artistica invidiabile: un album nella migliore accezione del termine, dove i singoli brani acquistano ancor più senso e spessore dal contesto e dall’ascolto complessivo.

Si va dalla “sperimentale” “Planet Telex“, frutto di un collage in loop di un frammento di batteria di Killer Cars, fino al primo singolo “My Iron Lung” (un anti-singolo, Ed O’Brien dichiarò che un suo amico lo aveva sarcasticamente definito “due canzoni appiccicate in una”) o il crescendo emotivo perfettamente orchestrato di “Fake Plastic Trees“, dove il sentimento emerge dal contesto, evocato dalla descrizione di immagini di forza quasi cinematografica, e non tanto dalla sua esplicitazione diretta. Quel brano fu il primo nel quale Thom Yorke dichiarò di aver trovato la sua cifra stilistica per la scrittura. O ancora la semplice quanto audace struttura circolare della sommessa “Street Spirit (Fade Out)“, nella quale Thom Yorke trae spunto dal bellissimo romanzo animista di Ben Okri, La via della fame, per trascinarci dentro una sorta di rituale collettivo dove dichiara l’inconsistenza della porzione di realtà che ci è dato sperimentare con i cinque sensi, la fragilità degli sforzi umani per opporsi al deperimento di qualsiasi cosa in cui viviamo immersi, fino a precipitarci nel baratro della disperazione a contemplare la morte e “i suoi occhi penetranti”, e uscirne poi con un’esortazione che, dopo quella discesa, costituisce l’ultimo tenue baluardo di speranza per gli esseri viventi “immerse your soul in love” (“immergi la tua anima nell’amore”). Unica concessione al “facile” la radiofonica “High and Dry“, che infatti appartiene a una session di registrazione precedente a quella di The Bends, e che i Radiohead nel corso della loro storia accantonarono dalle scalette dal vivo più e con più acrimonia di “Creep“.

Un’identità artistica chiamata libertà

The Bends è una premessa necessaria per Ok Computer, perché diede alla band la consapevolezza della sua essenza profonda e di quello che poteva rappresentare nel panorama musicale dell’epoca, diede ai discografici un esempio lampante di come dovevano relazionarsi alla band (niente più pressioni per hit di successo) e di come avrebbero dovuto trattare quello che producevano (un prodotto di spessore da valorizzare artisticamente con un occhio di riguardo) e nondimeno disse al pubblico inglese, che inizialmente li aveva un po’ snobbati, che quella era una band da guardare con rispetto. Non era una band velleitaria da “un hit e via”, una rock band che “piace agli americani”, ma un collettivo artistico da prendere maledettamente sul serio. A volte anche troppo.

Infatti è in questo periodo che inizia il “mito”, non del tutto (e per fortuna!) corrispondente al vero, di un Thom Yorke artista corrucciato, travagliato e ripiegato su stesso, che mette in musica le sue sofferenze personali. Quando uscì The Bends, in piena temperie britpop, fu evidente che parlasse un linguaggio già molto diverso. Ottenne finalmente un piazzamento di tutto rispetto nella classifica inglese degli album, in America arrancava, inoltre nessuno dei singoli estratti sembrava poter bissare il successo di “Creep“. Però l’album era indubbiamente un capolavoro, e ottenne recensioni entusiastiche un po’ ovunque. E come tutti i capolavori ebbe vita lunga, e questo grazie a vari fattori. Uno di questi fu la stima incondizionata dei R.E.M., figure di riferimento nella formazione dei cinque, che li vollero in apertura e a supporto delle date europee del tour di Monster, proprio perché avevano ascoltato e adorato The Bends, per poi portarseli in giro in alcune date selezionate in territorio americano.

Il supporto logistico e umano della band di Athens, una band che era riuscita a ballare con grazia con i meccanismi del mercato discografico senza mai perdere la propria purezza e mantenendo un tenore artistico sempre molto elevato e coerente, fu il segnale inequivocabile che i Radiohead stavano andando nella giusta direzione. In più quell’esperienza favorì la nascita di una bellissima amicizia tra Michael Stipe e il cantante dei Radiohead, se non qualcosa di più: Mr. Stipe, come inizialmente Thom Yorke lo chiamava con rispetto, divenne quasi una figura di fratello maggiore, una specie di mentore che insegnava a Thom come resistere alla crescente pressione della popolarità, mantenendo i piedi per terra.

Negli ultimi mesi di quell’anno ci fu un’ulteriore segnale positivo: le testate musicali inglesi e americane portarono The Bends sugli scudi, attribuendogli i primi posti nelle tradizionali classifiche di fine anno come migliore album, e questo fu forse un fatto non secondario nel convincere la casa discografica a licenziare, all’inizio del nuovo anno, proprio la dolente ma affascinante Street Spirit come ultimo singolo per sfruttare l’incredibile ondata di consensi. La cosa funzionò. Corredato da uno splendido video girato in ultra-slow-motion dal regista Jonathan Glazer, che riuscì nell’impresa di rappresentare la perfetta controparte visiva per un brano di una bellezza disarmante, il singolo balzò al quinto posto della classifica inglese, scalzando simbolicamente il monopolio di “Creep” e sfatando finalmente l’incantesimo che voleva la band di Oxford legata a quell’unico, imprescindibile polmone d’acciaio. Fu chiaro a tutti, discografici compresi, che quando si parlava di Radiohead, la qualità e le scelte coraggiose potevano ripagare.

È con queste premesse, con questa libertà conquistata sul campo, che iniziano i lavori per Ok Computer. E date queste premesse appare ormai chiaro il perché la casa discografica abbia deciso di concedere ai Radiohead per il loro terzo album tutto il tempo necessario, evitando di imporre scadenze. Altra proposta molto importante per settare il tenore del nuovo lavoro venne dall’acuto manager della band, Chris Hufford: siccome i Radiohead desideravano prodursi il nuovo album da soli, gli consigliò di comprare tutta l’attrezzatura e di allestire con questa uno studio mobile che avrebbero potuto spostare dove volevano. L’idea sfondò una porta aperta. Dato che i Radiohead avevano spesso dichiarato la loro insofferenza nei confronti del clima asettico degli studi professionali, poter registrare in luoghi che non rassomigliavano affatto a uno studio di registrazione avrebbe avuto un effetto positivo sulla loro creatività.

E così fu, i Radiohead registrarono Ok Computer nei mesi successivi tra il capannone che utilizzavano come sala prove nella campagna di Didcot nell’Oxfordshire, ironicamente battezzato Canned Applause (è il termine inglese per indicare gli applausi pre registrati usati negli spettacoli televisivi) e la villa di St. Catherine’s Court a Bath, un maniero del sedicesimo secolo noto nell’ambiente perché già utilizzato per alcune registrazioni dai Cure, che con le sue volte in muratura e la vecchia sala da ballo (che i Radiohead utilizzavano come ampio spazio per suonare) avrebbe fornito suggestivi effetti di riverbero naturale. Per interfacciare la band con le macchine e i controlli venne scelto Nigel Godrich. Questo è un altro dei motivi che rende Ok Computer un album centrale e di svolta nella carriera della band. Da qui nasce infatti quel sodalizio artistico con il produttore inglese che continua tutt’oggi e che avrebbe dato frutti ancor più spiazzanti negli anni a venire. La scelta cadde su Nigel per un puro fatto d’istinto, i Radiohead prima di entrare al Canned Applause avevano già registrato con lui “Black Star“, il b-side “Talk Show Host” e la splendida “Lucky” (per la compilation di beneficienza del progetto War Child, poi finita nella tracklist dell’album) e con lui avevano lavorato molto velocemente e in un’atmosfera rilassata: era coetaneo di Jonny e dotato di una mente ricettiva e aperta ad accogliere soluzioni nuove e inusuali in totale serenità, fu la scelta giusta.

Curiosamente i riferimenti artistici che i Radiohead dichiararono di aver tenuto a mente per la realizzazione di un album che molti critici lodarono per la sua modernità, sono fortemente radicati nel passato. Si spazia dalle atmosfere dilatate dei Pink Floyd alle composizioni dei Beatles del White Album, dalla libera sperimentazione artigianale sui suoni dei Can, all’utilizzo del piano elettrico Fender Rhodes e dell’effetto delay di Bitches Brew di Miles Davis, dalla grandiosità di Phil Spector all’epica di Ennio Morricone. Il tutto inserito in una pasta sonora stratificata ma mai ridondante, dove tutti gli elementi compositivi e arrangiativi danno un’idea di necessità, non appaiono mai fini a se stessi. Forse è per questo che Jonny Greenwood tentò in tutti i modi di schivare l’accostamento che alcuni critici più smaliziati, notando la frequente comparsa nell’album di uno strumento tipicamente legato agli anni Settanta come il mellotron, fecero tra Ok Computer e il progressive:

Ho cercato del buon prog in lungo e in largo, ma purtroppo è tutto orrendo […] l’unica cosa che salvo è il mellotron come strumento. Musicalmente non c’è niente. Mi piace abbastanza Meddle dei Floyd, ma non è proprio progressive. Voglio dire, quello è rock‘n’roll e basta, no?”.

Il risultato sonoro finale è indubbiamente molto originale e personale, come disse Thom Yorke: “Tutto sta nel mirare e mancare il bersaglio, davvero”.

Un bersaglio centrato

Il bersaglio che i Radiohead centrarono fu quello di creare un album per descrivere il mondo moderno. Molte delle suggestioni che compaiono nell’album vennero raccolte e trascritte da Thom Yorke nel corso dei vari spostamenti americani e europei del tour di The Bends. Si può dunque facilmente immaginare il paesaggio visivo e uditivo in cui vive immersa una rock band nel corso di un tour: aerei, stazioni della metro e dei treni, luoghi pubblici di transito affollati, gingle computerizzati, messaggi di servizio, musiche da sala d’aspetto, il ronzare dei frigobar nelle sale d’albergo e dei televisori accesi. Questo campo sonoro “spaesante” venne descritto da Thom Yorke come “fridge buzz”, e costituisce uno degli elementi che maggiormente suggestionano inconsciamente l’ascoltatore di Ok Computer: Il cantante dei Radiohead volle che quelle suggestioni finissero su disco, a costituire la perfetta controparte sonora di quel mondo che andava descrivendo. Registrò molti di quei suoni d’ambiente nel corso del tour di The Bends con un Mini Disc della Sony per poi farne dei loop, che inserì con l’aiuto del fido Nigel Godrich in alcuni brani dell’album a completarne la grana. Altri rumori di fondo vennero poi realizzati appositamente in studio con un registratore a nastro, incollando insieme dei pezzi di registrazioni d’ambiente o di altra provenienza per creare un suono circolare, rallentando a mano la bobina finché non si otteneva l’effetto desiderato. Il lavoro di remaster compiuto in occasione di questa edizione di Ok Computer permette di coglierli con maggiore nitidezza.

Altro elemento che stava particolarmente a cuore a Thom Yorke era di evitare una scrittura che ponesse eccessivamente l’accento sull’io narrante e sui suoi sentimenti: “Siamo bombardati di emozioni, di sentimentalismo. Questo è lo sconforto. La sensazione dell’artificiosità dei sentimenti. O piuttosto la sensazione di un magma indistinto di sentimenti, dalla pubblicità di un’automobile a una canzone pop […] e sentimentalismo vuol dire anche essere emotivi per il gusto di esserlo”. Evidentemente questo era un modo per sfuggire all’etichetta che gli avevano affibbiato alcuni critici, quello di un artista eccessivamente emotivo, ripiegato su se stesso e sui suoi crucci esistenziali. Per sfuggire alla gabbia dell’io e del suo continuo vociare (cosa che ben si accordava coi suoi recenti studi buddhisti) si risolse di utilizzare lo spaesamento che aveva sperimentato durante il tour di The Bends come rappresentazione della sensazione di smarrimento dell’uomo moderno, continuamente trasportato attraverso luoghi di transito a cui sente di non appartenere, bombardato da suoni e rumori prescindibili che intasano la sua interiorità. Per sfuggire al sentimentalismo utilizzò poi l’accorgimento stilistico caro a uno dei suoi poeti più amati, T.S. Eliot, ma anche allo stesso Michael Stipe: attraverso descrizioni di luoghi, di immagini, di persone ed oggetti, l’emozione può essere letteralmente evocata nell’ascoltatore, anziché nominata esplicitamente. Unendo questo nucleo tematico a questi accorgimenti di stile e ad alcune delle suggestioni tratte dalla Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams, così come dal Libro tibetano del vivere e del morire, Ok Computer risultò come un lucido affresco del nostro mondo sullo scorcio del 20simo secolo.

Airbag

Thom Yorke aveva dichiarato di aver provato a comporre musica col computer proprio perché quello strumento suggeriva soluzioni compositive nuove e impensate, ma di esserne rimasto deluso per il fatto che i suoni che si potevano produrre al computer gli apparivano nella maggior parte dei casi innocui e insignificanti. Per cui prese esempio da DJ Shadow, che componeva musica spezzettando e riassemblando campioni di vinili preesistenti, per fare lo stesso con la batteria di Phil Selway, la cui linea sulle prime non lo aveva convinto. Campionarono la traccia originale di batteria di Phil, frammentandola in piccole sezioni, per poi ricomporre i frammenti in un ordine diverso e franto, ottenendo il ritmo che apre così opportunamente un disco sul nostro tempo. Quell’andamento suggerì a Colin l’idea del basso a sobbalzi, spezzato e tronco, che caratterizza così modernamente il brano. Lo stratagemma era già stato utilizzato ai tempi di Planet Telex, ma qui viene portato alle estreme conseguenze. Il testo trae spunto dalla lettura del Libro tibetano del vivere e del morire di Sogyal Rinpoche, un maestro buddhista contemporaneo che ha vissuto a lungo in occidente, e ha avuto modo di osservare lo stile di vita occidentale, raccogliendo le sue osservazioni. Il libro contiene acute considerazioni filosofiche, consigli pratici, e una sorta di piccolo prontuario per la meditazione. In uno dei capitoli il monaco osserva come il nostro consueto evitamento del pensiero della morte non abbia l’effetto di farci vivere una vita piena e gioiosa, ma al contrario, paradossalmente, ci fa vivere una vita confusa e caotica, attribuendo importanza a cose insignificanti in un’improbabile illusione d’immortalità e di giovinezza, inseguita anche attraverso l’ossessione per l’estetica e la chirurgia plastica. In un paragrafo il monaco nota come coloro che abbiano vissuto esperienze di premorte, o che siano stati posti forzatamente di fronte alla consapevolezza della propria mortalità, come ad esempio scampando a un incidente stradale, ne siano usciti come rinati, con una visione più serena, lucida e spirituale del loro ruolo nell’esistenza. È per questo motivo che Thom Yorke apre l’album con un curioso brano dal titolo “Airbag“, dichiarando, tra l’estatico e l’esaltato, di essere rinato in un “autotreno accartocciato”, un residuato della “next world war”, o di essere sopravvissuto all’impatto in una “fast german car”. È ritornato alla vita con una visione salvifica da condividere con tutti gli esseri umani “In an interstellar burst I am back to save the universe”.

Paranoid Android

Molti sanno che il “Paranoid Android” è lo spassoso quanto depresso androide cibernetico dalla saga di Douglas Adams. In meno probabilmente conoscono l’antefatto da cui questa canzone trae ispirazione e che è adombrato a dovere nel testo. Qualcosa di molto meno fantascientifico: una serata dai tratti lynchiani in un bar alla moda di Los Angeles, dopo una comparsata in televisione dei Radiohead. La prima parte della suite infatti si apre con un ritmo di percussioni e shaker (la cabasa), a mimare quasi i suoni di una situazione conviviale da lounge bar. Quella sera Thom Yorke dichiarò di aver avuto difficoltà a dormire, proprio perché, in quella situazione di serpeggiante disagio (immaginate i Radiohead fianco a fianco con la mondanità della città dei lustrini), avvenne un fatto increscioso: un amico della band versò un bicchiere di vino sul completo bianco Gucci nuovo di pacca di una delle avventrici, scatenando in lei una reazione di mostruosa ferocia: “Magari io ero esaurito o allucinato… ma io so quello che le ho visto in faccia. Quella notte non riuscii a dormire per causa sua… cioè… erano tutti fuori per la coca e sono sicuro che quello c’entra, ‘porca puttana, ma che cazzo ha?!’”. Dopo la sfuriata della “squealing Gucci little piggy”, che presiede alla porzione più violenta del brano, torna la calma per la sezione più elegiaca dalla suite. Composta nella parte musicale interamente da Jonny, mostra un impeccabile ma fermo buttafuori che conduce i nostri protagonisti fuori dalla porta del locale “That’s it sir, you are leaving”, “Questo è quanto signore, lei se ne sta andando”, mentre sotto una pioggia scrosciante e purificatrice passano in rassegna le immagini dell’ingordigia e dell’ambizione: “Il creparsi della pelle dei maiali, gli yuppies che fanno rete, la polvere e le grida, il panico, il vomito”. Il brano si chiude con un’amara e sarcastica considerazione sullo stato del mondo e delle cose, che sembra uscire direttamente dalla bocca di Marvin, l’androide di Douglas Adams, “God loves his children, yeah”, “Dio ama i suoi figli, certo”.

Il risultato musicale è una suite di sei minuti e mezzo, che nacque dal lavorio di studio quasi per scherzo, con l’idea di provare a ottenere qualcosa di simile a quello che facevano i Beatles in “Happiness Is a Warm Gun“, una canzone tripartita. “Quando ascoltavamo quello che avevamo registrato ridevamo inebetiti. Ci sembrava di essere degli scolaretti irresponsabili alle prese con una cosa un po’ da impertinenti, perché nessuno fa una canzone di sei minuti e mezzo con tutti quei cambi. È ridicolo”, disse Colin. Cosa ancor più impertinente, quel brano da sei minuti e mezzo sarebbe stato scelto come primo singolo estratto dall’album. Completato da un iconico video, animato dal disegnatore svedese Magnus Carlsson, si assestò al terzo posto della classifica inglese dei singoli. Un altro motivo per far dire a Thom “When I am king you will be first against the wall”.

Subterranean Homesick Alien

Uno di quei titoli che Thom definì “scherzosi”, perché parafrasi del titolo dylaniano Subterranean Homesick Blues, fu anche uno dei primi brani a essere composto per l’album. I rintocchi della chitarra di Jonny, che utilizza un pedale whammy più un delay, accrescono l’atmosfera spaziale a sognante, intrecciandosi al suono vibrante del Rhodes. Per spiegare il concept, Thom disse che quando era piccolo era solito confondere l’idea degli angeli con quella degli alieni. Nel brano immagina che delle figure al di sopra delle parti osservino dall’alto e senza intervenire, la vita di strani esseri che “incatenano i loro spiriti, scavano buchi dentro se stessi, e vivono per cose che tengono nascoste”, ovvero gli esseri umani. Non è poi senza ironia che il cantante dei Radiohead precisa come questi alieni non si limitino a osservare le vite di questi piccoli insignificanti esseri, ma le filmino, “making home movies for the folks back home”, realizzando con queste dei piccoli “filmati amatoriali da mostrare ai parenti a casa”. Subterranean Homesick Alien è in effetti l’episodio dell’album che meglio riproduce lo spirito della Guida galattica per gli autostoppisti, perché i romanzi della saga di Adams, al di là della loro riduzione cinematografica, accanto all’ironia mostrano spesso con un’ambiguità molto inglese, degli squarci di vera poesia. Così come avviene nel finale del brano, dove il protagonista immagina di essere portato a bordo di una delle loro “beautiful ship” per librarsi finalmente al di sopra dell’insulsa vita che conduce nella cittadina dove vive, per poi tornare giù come rinato, mostrando ai suoi amici le stelle che ha potuto osservare e la douglassiana “meaning of life” (42) e ovviamente finire rinchiuso in un reparto psichiatrico. “But I’d be alright”, “ma starei bene”.

Exit Music (For a Film)

Il testo è talmente attuale che potrebbe sembrare un fatto di cronaca, la storia di due ragazzi che fuggono da una situazione di degrado e di violenza famigliare: “Pack and get dressed before your father hears us, before all the hell breaks loose”, “Fai lo zaino e vestiti prima che tua padre ci senta, prima che si scateni l’inferno”. Scritta e registrata per la colonna sonora di Romeo + Juliet, l’attualizzazione cinematografica del testo shakespeariano a cura di Baz Luhrmann, Il regista inviò alla band un estratto di dieci minuti delle riprese del film e la band cominciò a lavorarci. Lo scarno e desolato incipit, chitarra acustica e voce, lascia gradualmente lo spazio sonoro, quasi senza rendercene conto, a un crescendo emotivo e musicale implacabile, che fa da commento alla fuga dei due. A partire dall’inserto dei “cori” realizzati da Jonny sul mellotron, ci rendiamo conto che quella fuga nasconde forse qualcosa di più tetro, “breathe, keep breathing, I can’t do this alone”, “respira, continua a respirare, non posso fare questa cosa da solo”, fino alla sezione con i suoni di balene (un’idea di cui Nigel Godrich andrà molto fiero), dove quella tetra supposizione acquista sempre più consistenza di realtà: “Sing us a song, a song to keep us warm, there’s such a chill”, “canta una canzone per noi, una canzone che ci tenga caldi, c’è un tale gelo”. Nella sezione finale, dove si inserisce anche il basso iper distorto di Colin e la voce di Yorke raggiunge gli apici dell’emotività, i due esplodono in un livido urlo di disprezzo e di condanna che trascende i confini del testo di riferimento e dell’occasione cinematografica, per diventare un atto d’accusa definitivo contro tutte le forme di controllo, di negazione della libertà e del diritto a essere felici e di costruirsi una vita e un futuro: puoi ridere anche la tua risata più invertebrata, noi, i miseri, i senza futuro, siamo ormai “one in everlasting peace”, “uniti, nella pace senza fine” e ti auguriamo di strozzarti. “We hope that you choke”. Amen.

Let Down

In coda a “Exit Music” un vociare di strada lascia spazio alle prime battute di “Let Down“. Prime battute strutturate in maniera piuttosto complessa, almeno da riprodurre dal vivo. Inizialmente la registrazione prevedeva una chitarra ritmica guida di Thom Yorke in un regolare 4/4, su cui quella di Jonny e la dodici corde di Ed si installavano con una figurazione sghemba che fungeva da introduzione, per poi far entrare tutta la band di schianto nel regolare 4/4. Il problema si manifestò quando venne presa la decisione di estromettere la chitarra di Thom dal mix finale, lasciando quella parte introduttiva priva del riferimento necessario alla band per attaccare a tempo. Nella biografia di Mac Randall è presente un gustoso siparietto in cui Colin, Ed e Phil discutono animatamente e con un po’ di acrimonia su come avrebbero potuto suonare dal vivo quel pezzo, dato che “qualcuno” aveva pensato bene di togliere la chitarra di Thom.
Questo è il cuore pulsante dell’album. Ecco i correlativi oggettivi del nostro vagare, la poesia di un mondo in movimento: “Transports, motorways and tramlines, starting and then stopping, taking off and landing” ed ecco l’uomo, abbattuto, deluso, circondato da ogni dove da stimoli che lo svuotano e lo rendono insensibile, “the emptiest of feelings”, che lo tramutano nella forma vivente apparentemente più vicina alle macchine, l’insetto. E questo insetto è un essere schiacciato e morente “Shell smashed, juices flowing, wings twitch, legs are going”, “Il guscio è schiacciato, i fluidi che escono, le ali hanno un fremito, le gambe continuano ad andare”. La minuzia dei particolari con cui Thom descrive le forme di questa agonia, ne evidenzia la sofferenza, ce lo rende quasi vicino, ci fa provare pena per lui, lo rende quasi… umano. Ecco l’ambiguità di Ok Computer. Non è un album che prende ideologicamente le distanze dal mondo moderno e dalla tecnologia. È un album che invece vi si immerge a piene mani per rappresentarlo, nella sua bellezza e nel suo disagio. È un album dove un essere umano può rinascere migliore da un autotreno accartocciato, o dalle insegne al neon che scorrono sulle facciate dei palazzi, è un album dove quel mondo, e quel suo abitante-osservatore spaesato, vengono elevati e riscattati attraverso la poesia e la musica, la loro poesia e la loro musica, e non quella di un mondo antico astratto e irreale. “One day I am gonna grow wings, a chemical reaction”, “un giorno mi farò crescere le ali, una reazione chimica”. Questo è un album dove un uomo moderno decreta la vittoria dell’uomo, attraverso gli stessi strumenti che dovrebbero schiacciarlo. Dove anche un computer, preso nell’incantesimo, in coda a questo inno meraviglioso sembra voler piegare i suoi trilli digitali a replicare, con grazia, l’intreccio delle chitarre dei Radiohead.

Karma Police

Le influenze beatlesiane sono qui più evidenti. Altro brano dal titolo “scherzoso”, come suggerì lo stesso Thom Yorke, “Karmapolizziotti, arrestate quest’uomo! Non può essere una cosa seria, spero che la gente se ne renda conto”. Aggiunse però che questa canzone rappresentava il tipico atteggiamento stizzito che assumeva quando una persona lo guardava con malizia. Nel brano quindi si toglie la soddisfazione di scatenare i karmapoliziotti contro un uomo che parla in cifre numeriche, o che forse ormai non parla più, ma riproduce con la voce lo stesso borbottio di fondo inutile delle radio commerciali, dei gingle pubblicitari, del sentimentalismo d’accatto, degli apparecchi televisivi: “buzzes like a fridge”. L’altro bersaglio è una ragazza con una pettinatura a caschetto, da lui definita ironicamente “hitler hairdo”, “pettinatura da hitler” forse in stile mod, o chissà cos’altro avesse in mente. Interessante per esplicitare anche l’empirismo con cui i Radiohead e il loro giovane produttore lavorarono a Ok Computer è un frammento dello stesso Nigel Godrich:

“Karma Police venne registrata come una canzone ancora in via di completamento, infatti poi andammo in un vero studio a registrare il piano. Thom ed io uscimmo a farci una birra e ricordo bene che lui si lamentò un po’ con me del fatto che la seconda parte della canzone non gli piaceva tanto. ‘Perché non creiamo qualcosa ripartendo da zero? Era la prima volta che tentavamo qualcosa di simile. Dalla sezione intermedia (this is what you get… N.d.A.) fino all’outro abbiamo messo in atto un modo completamente diverso di comporre una canzone. Non c’è la classica band che suona. Ci sono una serie di campioni e di loop, con la tipica performance di Thom al di sopra di tutto, che è un po’ l’avvisaglia di molte delle cose che sarebbero arrivate nei lavori successivi, nel bene e nel male”.

L’effetto finale di chitarra di Ed, che chiude il brano con una specie di lunga sirena fischiante che progressivamente va fuori controllo, si abbassa di tono e distorce, fu realizzata mandando la chitarra in feedback e smanettando in maniera poco ortodossa sulle manopole di uno dei delay della sala regia di Nigel. “Venivamo da un’ignoranza assoluta, magari ci trovavamo davanti a uno stupendo delay digitale [fa finta di girare freneticamente le manopole, con tanto di rumori] con Nigel che faceva ‘Oh cazzo’, fino a che qualcuno a un certo punto diceva ‘così è perfetto!’, e quello era il nostro suono”.

Fitter Happier

Chiude la prima metà dell’album. Nient’altro che una lista di buoni propositi scritta da Thom freddamente, quasi come una lista della spesa, in un giorno piuttosto scuro di un periodo carico di stress in cui non riusciva proprio a comporre. Se la si astrae dal contesto e la si legge con attenzione, compaiono anche delle osservazioni che sembrerebbero cariche di buon senso: “non bere troppo”, “cerca di guidare più pazientemente e in maniera più sicura”, “cercare di relazionarsi meglio con i propri colleghi, dipendenti, contemporanei”, “mangiare meglio, evitare pasti al microonde e i grassi insaturi”, “procedere a un ritmo migliore, più lento e più calcolato” e addirittura non è difficile immaginare Thom Yorke che si appunta seriamente di “evitare d’ora in poi di uccidere i ragni buttandoli giù dallo scarico del lavandino”. Insomma, per certi versi la lista potrebbe anche apparire sincera. C’è anche un momento di grande autoironia: “No longer empty and frantic, like a cat tied to a stick that’s driven into frozen winter shit” ovvero “Cerca di non essere più vuoto e irrequieto come un gatto legato a un bastone che viene spinto nella cazzo di roba ghiacciata dell’inverno”, a cui infatti segue “the ability to laugh at weakness”, “la capacità di ridere delle debolezze” (probabilmente delle proprie, come in questo caso). C’è però il classico sorriso sarcastico di Thom nell’ultima frase, che in un attimo ribalta e vanifica tutta la lista di cui sopra: “Calmo, in una forma migliore, più in salute e produttivo, come un maiale in gabbia sotto antibiotici”. Et voilà.

Thom la fece leggere al programma di emulazione vocale di Fred, il Machintosh della band, e quella che scandita da un essere umano sarebbe stata nient’altro che una semplice, patetica lista di buoni propositi, pronunciata da un computer divenne qualcosa di molto più sinistro, l’inderogabile lista di prescrizioni per una vita perfettamente integrata. Thom si dichiarò molto stupito del fatto che un computer avesse potuto infondere vita ed espressività a una cosa che lui riteneva del tutto emotivamente neutra e piatta. L’effetto straniante è ulteriormente rafforzato dai tetri colpi di piano scordato in sottofondo, e da alcuni inserti di audio ambientale, tra cui la registrazione realizzata da Thom al Mini Disc di uno spezzone del film complottista “I tre giorni del Condor” trasmesso dalla televisione della sua camera d’albergo durante la tournée.

Electioneering

Stavo leggendo Noam Chomsky per la prima volta [fa il rumore di una scorreggia con la bocca]. Non facevamo altro che andare in giro a stringere mani e a fare convenevoli come i politici. “Salve, come stai?” “Ciao, è bellissimo essere qui.” “Ragazzi, siete stati magnifici.” “Bene, grazie del vostro sostegno”. Dovevamo incontrare un sacco di persone ed io non ero certo il migliore nel farlo, fortunatamente altri nella band c’erano più tagliati. Colin in particolar modo, poteva ammazzarti di chiacchiere, all’occorrenza”.

Thom sta dicendo che in tournée si sentiva un po’ come un politico in campagna elettorale, che deve essere affabile con tutti al fine di ottenere consensi. Da questa teoria nasce il testo di Electioneering, che ha anche che fare con l’avvento dell’era Tony Blair in Inghilterra: “Blair stava salendo al potere e c’era un sacco di ottimismo nell’aria, ma penso che in gran parte fosse solo una forma di arrivismo. Sono stati fatti dei bei film, molta buona musica… tutte chiacchiere. C’è stato un breve periodo in Inghilterra in cui si è creduto che la politica potesse essere tenuta lontana dagli egoismi, dall’affarismo e dagli interessi personali. Nel giro di qualche mese apparve chiaro che non sarebbe stato così”. Nel testo Thom Yorke giustappone concetti, immagini e frasi che hanno l’effetto di suscitare un giudizio diretto nell’ascoltatore: “Riot shields, Voodoo economics, it’s just business. Cattle prods, the I.M.F. I trust I can rely on your vote”, “Scudi antisommossa , teorie economiche Voodoo, sono solo affari. Bastoni elettrici, Il Fondo monetario internazionale. Confido di poter contare sul tuo voto”.

Climbing Up The Walls

Brano spettrale e strisciante, rappresenta il lato più paranoico dell’ispirazione di Thom Yorke. Nel testo sembra prendere parola un alter-ego maligno del cantante, la personificazione delle nostre paranoie o la figura di uno stalker, fenomeno sicuramente ben noto a chi deve fare i conti con la propria fama e la propria esistenza pubblica: “Io sono la chiave della serratura nella tua casa che tiene chiusi i giocattoli in cantina, e se ti ci addentri troppo vedrai solo la mia immagine riflessa”. La chitarra acustica ipersaturata di Thom Yorke, sulla quale si sentono strisciare le dita, tesse insieme a quella di Ed un tappeto di scrocchi, sibili e fischi a creare l’impressione di un pericolo imminente, quasi evocando una presenza dietro le nostre spalle. “È sempre meglio con la luce spenta, è sempre meglio quando si sta all’esterno, quindici colpi sulla tua nuca, quindici sulla tua testa”. La sensazione di avere una presenza alle spalle, o accanto al letto, è stata avvertita più volte dai Radiohead nel corso della loro permanenza nella villa di Bath, e non solo da loro, tanto da convincere la proprietaria, l’attrice Jane Seymour, ad affidarsi a degli esperti del paranormale: “Diverse persone sostenevano di aver visto quella che ritenevano essere la mia [defunta] madre camminare attraverso i muri in un ampio vestito blu, per poi dileguarsi verso la stanza del bagno. Chiaramente era una cosa molto strana. Abbiamo fatto delle sedute spiritiche. Abbiamo anche chiamato degli esperti per farli gironzolare avanti e indietro per casa. Chiunque volesse mai vedere un fantasma è stato in quella casa, ma nessuno ci ha mai trovato niente”.

No Surprises

Brano universalmente amato, punteggiato dalla linea ormai iconica del glockenspiel di Jonny, ed esempio dell’assoluta bravura dei Radiohead nel giocare con l’arte dei contrasti: testo durissimo, venato di malinconica frustrazione e melodia delicatissima, che cresce in una sorta di epica del quotidiano, dell’uomo comune: “A heart that’s full up like a landfill, a job that slowly kills you, bruises that won’t heal” “Un cuore riempito come una discarica, un lavoro che ti uccide lentamente, ferite che non si rimarginano”, una vita tratteggiata in tre implacabili dettagli, che suscitano un malinconico desiderio di rivalsa: “You look so tired and unhappy, bring down the government, they don’t, they don’t speak for us”, “Tu hai un’aria così stanca e infelice, abbattiamo il governo, loro, loro non parlano a nostro nome” e infine un’altra sequenza giustapposta di tre immagini, che per effetto iconico sono una delle linee più riuscite della penna di Thom: “I’ll take a quiet life, a handshake, some carbon monoxide”, “Sceglierò una vita tranquilla, una stretta di mano, un po’ di monossido di carbonio”. Curiosamente Thom Yorke ha di recente decrittato l’occasione all’origine di questa splendida ballata e di quel verso sul “governo”, che ai concerti viene inevitabilmente scambiato per un incitamento politico: “Quel verso è diventato una cosa strana, suscita quella strana reazione. Ma in realtà è stato scritto durante un merdoso viaggio in autobus. Un tragitto in autobus di due ore insieme a un gruppo di vecchi pensionati in Inghilterra. Non ricordo perché la mia macchina non funzionasse quel giorno. Comunque in effetti non aveva nulla di politico. Era più una cosa del tipo ‘Perché persone come queste sono state gettate via? Perché veniamo semplicemente abbandonati a marcire? Se questa è una democrazia ci dovrebbero aiutare. Perché non ci aiutano?’. Volevo dire solamente questo”.

Lucky

La registrazione del brano fu un evento importante per dare il la e determinare il clima per l’inizio dei lavori di Ok Computer. La versione che si può ascoltare su disco, nonostante sulle prime Nigel Godrich volesse remixarla, è la stessa che i Radiohead registrarono nel ’95 con lo stesso Godrich per l’album di beneficienza Help! del progetto umanitario War Child, una raccolta fondi per i bambini vittime della guerra in Bosnia. Tutti gli artisti contattati avrebbero dovuto registrare un brano inedito nel medesimo giorno, il 4 settembre, con tempistiche molto strette, per poi consegnare il materiale in vista della pubblicazione, prevista cinque giorni dopo. I Radiohead avevano eseguito il brano giusto la sera prima durante una tappa della loro tournée, e chiusero la sessione tanto velocemente da impensierire Thom Yorke, memore delle sessioni di The Bends, che riteneva impossibile che una band potesse produrre qualcosa di buono con una tale facilità.

Il tema è grossomodo lo stesso di Airbag, il sopravvissuto a un disastro aereo, che tirato fuori dalle lamiere risorge in una forma migliore di esistenza: “It’s gonna be a glorious day. Pull me out of the aircrash, pull me out of the lake, cause I’m your superhero. We are standing on the edge”, “Sarà un giorno glorioso. Tirami fuori dal disastro aereo, tirami fuori dal lago, perché io sono il tuo supereroe. Siamo in bilico, sul baratro”.

The Tourist

To be on tour: essere in tournée.

Per parlarci di sé, della vita in tournée, ma anche della nostra condizione, Thom Yorke ricorre a una metafora, quella del turista: “Tutto mi parlava di velocità quando scrissi quelle canzoni, avevo l’impressione di osservare dal finestrino delle cose che si muovevano a una velocità tale da non riuscire quasi a distinguerle”. Sottoposto allo stress e a continui spostamenti quell’uomo è sovraccarico di energia elettrica, l’unico ad accorgersene è un cane, che con il suo istinto ne avverte la tensione, mentre i passanti continuano imperterriti la loro corsa: “It barks at no one else but me, like it’s seen a ghost. I guess its seen the sparks a-flowing, no one else would know”, “Non abbaia ad altri che a me, come se avesse visto un fantasma. Credo che sia perché ha visto le scintille che mando tutto intorno, nessun altro potrebbe accorgersene”.

Ecco dunque che quell’uomo che si appresta a entrare nel XXI secolo, quel turista della vita rivolge e a se stesso un ammonimento, quasi fosse il cane ad averglielo suggerito: “Hey man slow down. Idiot slow down”, fermati idiota, ma dove vai! Rallenta! Rallenta. Questo verso sembrava più retorico vent’anni fa. Oggi che rallentare è quasi una questione di necessità per vivere e per pensare, per fare meglio, a volte quasi una necessità fisiologica, questo verso va preso molto sul serio, anzi, sembra quasi profetico.

NOT OK

I Radiohead giocano spesso sulla pluralità dei significati dei loro contenuti, che solitamente alludono, volutamente, alla possibilità di essere letti in maniera coerente su diversi piani di lettura. Così avviene anche per lo spassoso titolo di questa ristampa, OKNOTOK, che non fa altro che ripetere la già insita ambiguità di fondo del titolo originale: Ok Computer non è certo un disco che glorifica i computer, o il culto della tecnologia, ma è sicuramente un disco che lo abbraccia, il computer, e lo include come strumento compositivo. E anche concettualmente il disco abbraccia e include il mondo in via di digitalizzazione e globalizzazione di fine millennio, facendone il centro della propria narrazione. Tra le varie interviste del periodo in cui i Radiohead danno spiegazioni spassose circa la scelta di quel nome, ce n’è una particolarmente interessante in cui Thom Yorke racconta di un amico che aveva appena finito di leggere un saggio di Thomas Pynchon sui luddisti, quel manipolo di persone che nella prima fase dell’industrializzazione andava in giro a spaccare i telai meccanici: “Insomma, quel mio amico mi ha dato questo saggio e mi ha detto ‘ecco, questo è quello che penso del vostro album”. Sarebbe però difficile scambiare i Radiohead per degli alfieri del ritorno al buon mondo antico. E infatti, se si va a leggere il saggio di Pynchon, si trova la seguente riflessione: “Le macchine sono ormai così facili da usare che anche il più impenitente dei luddisti può essere tentato di abbandonare il vecchio martello pneumatico per accarezzare una tastiera. Se è così, i luddisti potrebbero dover stare su un terreno comune con l’allegra brigata di quelli che dovevano avere “il futuro nelle ossa” […] potrebbe essere che le più profonde speranze luddiste risiedano ora per un miracolo nell’abilità del computer di far arrivare i dati a coloro ai quali i dati daranno maggior beneficio”. Il che vale a dire che il computer è un prezioso strumento creativo e uno stimolo per il pensiero critico.

Ben noto è poi l’aneddoto, riportato da Rolling Stone, secondo il quale Thom Yorke avrebbe appuntato il titolo del disco in tourbus, mentre ascoltava con la band l’audiolibro di Guida galattica per gli autostoppisti: “Nel bel mezzo del libro, il computer di bordo della nave spaziale dice di non essere in grado di respingere una raffica di missili in arrivo. ‘Ok computer’, risponde il presidente galattico Zaphod Beeblebrox, ‘voglio il completo controllo manuale’.

Okay o not okay, dunque? Quel che è certo è che la questione diventa molto più lineare passando al piano di lettura più semplice: se osserviamo la tracklist, sul retro copertina di questa riedizione, notiamo che con OK sono marcate le tracce dalla 1 alla 12, quelle effettivamente finite sull’album, mentre NOT OK sono le tracce escluse, ovvero le tre tracce inedite, più le otto b-side già pubblicate sul retro dei singoli dell’album (nonché sulla raccolta del ’98 Airbag/ How Am I Driving? e sulla collector’s edition che la Emi pubblicò con un certo disappunto da parte dei Radiohead, quando questi passarono tra le file degli indipendenti).

Tra i b-side più riusciti si segnala senza dubbio la splendida Lull, una sorta di racconto intimo di un disordine da stress, il corpo è già a casa mentre la mente non riesce a staccare: “You wake and smile, I just snapped and lost control. Distracted by irrelevance, the stress and the tension, the stress and the tension, I’m in a lull”, “Tu ti svegli e sorridi, io scatto e perdo il controllo. Distratto dall’irrilevanza, lo stress e la tensione, lo stress e la tensione. Ora sono in quiete”. Oggi più che mai un omaggio dovuto alla cara Rachel.

Potremmo anche concludere che nel testo è esplicitato il motivo stesso per cui il brano non è stato incluso nell’album: “Non c’è niente di più tedioso che parlare di sé stessi”. Altro brano intimo è la dilatata A Reminder, che dopo la registrazione di un annuncio della metropolitana di Praga si apre in un’elegiaca richiesta alla propria compagna di ergersi a testimone e a tutela della propria gioventù: “If I get old I will not give in, but if I do, remind of this. Remind me that once I was free, once I was cool, once I was me. And if I sit down and cross my arms, hold me up to this song”, “Se divento vecchio, non mi arrenderò, ma se lo faccio, ricordami questo. Ricordami che un giorno sono stato libero, che un giorno sono stato forte, che un giorno sono stato me stesso. E se mi siedo e incrocio le braccia, inchiodami a questa canzone”. L’acme emotivo di questa passeggiata tra i ricordi personali di del cantante dei Radiohead è raggiunto in How I Made My Millions, uno dei pochi, se non l’unico brano della band pubblicato in forma di demo.

Thom Yorke che suona il piano nell’intimità del focolare domestico, mentre i rumori che si avvertono sullo sfondo secondo i biografi non sarebbero nient’altro che Rachel che rassetta la casa: “I was stronger, I was better. Picked you out. Now don’t say a word, no, don’t yell out, nevermind”, “Ero più forte, ero migliore. Ti ho scelta. Ora non dire una parola, non urlare, non importa”, quasi a dire che i milioni, in campo artistico, si pagano in rapporti conflittuali, incomprensioni, momenti di tensione.

Momento “alla Sliding Doors” di questa riedizione è la comparsa di quelle canzoni che nel 1997 non riuscirono a comparire nella scaletta definitiva dell’album originale. Prima fra tutte Lift, la cui pubblicazione, per i fan dei Radiohead, riveste la stessa importanza simbolica di quella di True Love Waits, inclusa nel recente ultimo lavoro della band: una canzone lungamente attesa, divenuta oggetto di culto, finalmente ascoltabile nella sua versione da studio. Del brano dal vivo giravano da almeno vent’anni alcune registrazioni clandestine, perché i Radiohead proposero quella canzone diverse volte, insieme ad altre anteprime di Ok Computer, nel corso del tour di The Bends e anche nel corso di quelle date americane che suonarono, tra una fase e l’altra delle registrazioni, di spalla ad Alanis Morissette. Ed O’ Brien ricorda così quel tour:

È stato un tour molto importante, Il suo album era veramente pop. Suonavamo materiale tratto da The Bends e ovviamente Creep. Nessuno conosceva una canzone di The Bends, conoscevano soltanto Creep perché era una hit da Top 40. Rimanemmo un po’ spiazzati … finimmo per suonare solamente Creep, occupando tutto il resto della scaletta con canzoni nuove. Avevamo un brano intitolato Lift che non ce l’ha fata a finire su disco. Reagivano veramente bene a quella canzone, aveva un groove pazzesco. Li faceva diventare matti”.

Quella canzone otteneva delle reazioni così entusiastiche che alla Emi si incominciò a vociferare che Lift sarebbe stato il primo singolo. Più di recente Ed ‘O Brien ha spiegato perché quel brano fu estromesso dalla scaletta dell’album:

Era un brano contagioso, un grande inno da stadio. Se quella canzone fosse stata inclusa nell’album, ci avrebbe portati in un’altra direzione, e probabilmente avremmo venduto molte più copie, a patto di registrarla a dovere. Tutti ci dicevano così, e inconsciamente l’abbiamo uccisa. Se Ok Computer fosse stato come Jagged Little Pill [il disco di Alanis Morissette, N.d.A.], ci avrebbe distrutti. Ma Lift probabilmente aveva del potenziale, aveva una certa magia. Non siamo riusciti a farne una buona versione perché quando siamo andati in studio a registrarla ci sembrava di avere una pistola puntata alla tempia. Ci sentivamo troppo pressati”.

Il brano è effettivamente molto radiofonico, ma questo non avrebbe costituito un problema di per sé. Il problema semmai era che quel brano sembrava a tutti gli effetti più legato al passato della band, che non a quel futuro che si sarebbe di lì a poco manifestato. Inoltre il testo era ancora troppo avvinto all’io narrante e ai suoi struggimenti, uno stile che Thom stava cercando di estromettere dalla sua scrittura, anzi è l’unico testo dei Radiohead dove il cantante chiama se stesso per nome: “This is the place, sit down, you’re safe now. You’ve been stuck in a lift, we’ve been trying to reach you, Thom”, “Questo è il posto, siediti, sei al sicuro ora. Sei rimasto bloccato in un ascensore, abbiamo provato a raggiungerti, Thom”. Però il ritornello è da favola “l’odore dell’aria condizionata, i pesci galleggiano a pancia in su, svuota le tasche, perché è ora di tornare a casa”.

Le stesse identiche considerazioni si potrebbero fare per I Promise, un’accorata ballata per chitarra acustica e archi, sulla quale la batteria di Phil Selway si inserisce con un ritmo marziale suonato con le spazzole sul rullante, tanto che la canzone non sfigurerebbe in certe occasioni, come inno per “percorrere la navata”: “I Won’t run away no more, I promise. Even when I get bored, I promise. […] Even when the ship is wrecked, I promise. Tie me to the rotting deck, I promise”, “Non sfuggirò più, lo prometto. Anche quando mi annoio, lo prometto. […] Anche quando la nave è naufragata, lo prometto. Legami al ponte che si decompone, lo prometto”.

Il terzo inedito, Man Of War, nel titolo fa riferimento al modo in cui erano chiamati i vascelli da guerra dell’antica marineria inglese, o ancora alla caravella portoghese, la “medusa” oceanica altamente velenosa (nell’artwork del singolo Paranoid Android è rimasto qualcosa di simile a una medusa), che galleggia in superficie lasciandosi trasportare dal vento. Nel testo quindi si fa riferimento al tema dello “spaesamento” da viaggio e dell’isolamento progressivo a cui conduce, ma da un prospettiva marinaresca: “Drift all you like, from ocean to ocean. Search the whole world, but drunken confessions and hijacked affairs, will just make you more alone”, “Vai alla deriva dove ti pare, da oceano a oceano. Perlustra tutto il mondo, ma le confessioni da alcol e le storielle furtive non faranno altro che renderti ancora più solo”. Il brano fu licenziato come colonna sonora di un film spionistico dell’epoca, ma mai pubblicato su disco.

Quando Chris Hufford e i Radiohead inviarono il materiale di Ok Computer pronto per la pubblicazione alle varie etichette controllate dalla Emi, le risposte furono piuttosto positive, ma pare che alla Capitol si dissero un po’ perplessi e “delusi” dal fatto che nel disco mancassero tutti quei pezzi che consideravano “forti” e che probabilmente già pregustavano come inni radiofonici. I Radiohead a quell’epoca avevano bisogno di guardare altrove, volare alto e diventare quello che sarebbero diventati, non una band da greatest hits, ma una band capace di alzare l’asticella ad ogni uscita discografica, capace di preparare il futuro.

Allora ci siamo lanciati e abbiamo detto all’America: spegnete le vostre antenne commerciali, scordatevi i maledetti singoli, prendetelo come una scommessa, ascoltatelo per qualche settimana: vi renderete conto di che grande opera si tratta”. La storia gli avrebbe dato ragione.

Bibliografia

Cook-Wilson, Winston, Radiohead Left “Lift” Off Ok Computer Because They Thought It Would Sell Too Many Records, Spin.com
Doheny, James, Radiohead, la storia le canzoni, Firenze, Giunti, 2016, tr. di M. Lauro, M. Ferrante
Greene, Andy, Radiohead’s Ok Computer: An Oral History, Rollingstone.com
Greene, Andy, Radiohead’s Rhapsody In Gloom: Ok Computer 20 Years Later, Rollingstone.com
Hogan, Mark, Why Radiohead Finally Releasing “Lift” Matters, Pitchfork.com
Pynchon, Thomas, È giusto essere luddisti?, “New York Times Book Review” 28 ottobre 1984.
Randall, Mac, Exit Music, la storia dei Radiohead, Roma, Arcana, 2011, tr. Di G. Masini e I. Pepiciello

Dello stesso autore di:

Androidi, arcobaleni e fiori di loto, le canzoni che hanno fatto la storia dei Radiohead“, Roma, Arcana, 2014